Capita spesso, e non solo quando si è all’inizio di un incarico professionale, di trovarsi in situazioni in cui si ha bisogno di aiuto.
Ma capita altrettanto spesso di essere riluttanti a chiederlo. Le ragioni sono tante: imbarazzo nel mostrare di non aver capito, disagio nei confronti di un superiore che ci mette in soggezione, paura di deluderne le aspettative, timore di fare brutta figura, desiderio di mostrarsi indipendenti.
Sicuramente conta molto anche il modo in cui un superiore si rivolge ai propri collaboratori. Anche in questo caso, infatti, sono molteplici i fattori che influiscono sul buon esito di una conversazione: la fretta innanzitutto (non abbiamo mai tempo per niente, figuriamoci per spiegare per l’ennesima volta come svolgere un compito), parlare velocemente, usare un linguaggio troppo tecnico, non assicurarsi che il nostro interlocutore abbia realmente capito, mostrarsi distratti, preoccupati o pensierosi.
A proposito di “Cosa pensa e cosa intende fare davvero il capo-ufficio?”, un’indagine statunitense realizzata dalla Lynn Taylor Consulting ha calcolato che i dipendenti passano circa 20 ore alla settimana a interrogarsi su quello che pensa realmente il loro capo, evidenziando così le sottili implicazioni che nascono dai rapporti gerarchici all’interno di un’azienda, oltre all’elevato consumo di tempo e di energie che il modo di porsi di un manager o di un titolare possono causare sul personale.
Risulta quindi chiaro come, se da una parte un ruolo fondamentale lo gioca la personalità del singolo collaboratore, che soprattutto se è timido e riservato può avere maggiori difficoltà nel rivolgersi ad un superiore per chiedere spiegazioni, dall’altra parte riveste un ruolo altrettanto fondamentale il modo che titolari, responsabili o anche semplicemente colleghi più “anziani” hanno di porsi di fronte a chi avrebbe bisogno del loro aiuto.
Ma vediamo nel dettaglio quali sono le conseguenze di una comunicazione insufficiente sul lavoro. Le conseguenze per il singolo sono, nel medio e lungo termine: perdita di tempo e di energie, calo di autostima e di concentrazione, malessere fisico, scarsi progressi, minor produttività (che è direttamente connessa con l’emotività), aumento del numero di permessi dal lavoro e di assenze per malattia, poca soddisfazione, scarsa fidelizzazione. Le conseguenze per l’azienda: prodotti di scarsa qualità, personale poco qualificato, poco produttivo e poco motivato, ritardi nella consegna del prodotto/servizio, clientela insoddisfatta che si rivolge alla concorrenza, maggiori spese, minori guadagni e conseguente riduzione degli utili.
Sembra fantascienza, ma in realtà una scarsa comunicazione in azienda è una situazione piuttosto comune. Per ovviare a questa situazione basterebbero alcuni piccoli, quanto fondamentali, accorgimenti:
Quando inseriamo una nuova risorsa in azienda, cambiamo ruolo o promuoviamo un dipendente, assicuriamoci di chiarire bene quali saranno i suoi compiti e cosa ci aspettiamo che ottenga. Mettiamolo a proprio agio e rafforziamo il suo lavoro con l’ausilio di un mansionario, contenente indicazioni precise. Assicuriamoci che qualcuno con più esperienza di lui lo affianchi e sia pronto ad accompagnarlo verso una piena autonomia. Programmiamo assieme a lui un percorso di formazione, verifichiamone i progressi e, all’occorrenza, aggiustiamo il tiro.
Rimaniamo a sua disposizione per qualsiasi chiarimento, anche perché una richiesta di aiuto altro non è che una manifestazione della voglia di imparare, di mettersi in gioco, e questa è la strada per diventare veramente “in-dipendenti”. Rivolgere una domanda è sintomo di stima e di fiducia nel nostro interlocutore, è riconoscergli il fatto di saperne di più, di poterci insegnare qualcosa di importante.
Alla luce di queste considerazioni appare chiaro come, facendo del dialogo e della comunicazione una pratica quotidiana, non solo renderemo i nostri collaboratori più performanti, ma contribuiremo a rafforzare le dinamiche di gruppo e a creare un ambiente di lavoro più sereno e produttivo.
E’ in gioco il nostro benessere personale e quello della nostra azienda. Perché l’armonia, quando c’è, fa stare meglio. Tutti.
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