In ambito aziendale bisogna sempre stare attenti agli asintomatici.
Qualche esempio:
– Collaboratori scontenti, che non lo danno a vedere con il proprio titolare, ma che si lamentano quotidianamente con i colleghi, “contagiando” la loro insoddisfazione.
– Clienti che stanno valutando di cambiare fornitore, ma che non hanno mai manifestato apertamente la possibilità di andarsene.
– Soci in conflitto silenzioso tra loro, ma che non litigano e non si scontrano, limitandosi a farsi una guerra sotterranea.
In poche parole l’asintomatico è più pericoloso perché non sembra pericoloso. Quindi rimane col problema ma soprattutto contagia tanti altri, senza che nessuno possa intervenire.
Credo che anche in questa situazione si stia sottovalutando il ruolo di chi non manifesta sintomi, e per questo non rientra in nessuna statistica e in nessuna tabella ufficiale, impattando però in maniera determinante sugli altri.
Senza che ne abbia neppure lui consapevolezza.
È anche un messaggio metaforico per l’intero genere umano, per farci riflettere su ciò che è più pericoloso nelle relazioni umane, nei rapporti professionali e nelle dinamiche comunicative.
Basti pensare a coloro che hanno seri disturbi psicologici, ma per il mondo sembrano perfettamente normali (uno studio di qualche anno fa rilevò che molti speculatori finanziari, per avere successo, dovevano avere determinate psicosi, apparentemente asintomatiche).
Ecco, in questi casi è bene che la malattia si manifesti, affinché sia curabile o, quanto meno, arginabile.
Il rischio più grande è non vederne immediatamente gli effetti, permettendo che il virus continui a diffondersi incontrastato.
Per approfondire questo ed altri argomenti: www.accademiasovversiva.it
E’ sempre stata buona prassi aziendale pianificare, a fine anno, quello successivo. Ovvero creare una strategia marketing con budget commerciali, valutare che prodotti/servizi nuovi introdurre, rivedere l’organizzazione occorrente ed incastrare il tutto con gli obiettivi economici e finanziari dell’impresa.
Oggi però questa sana e utile attività viene vista dagli imprenditori come una sorta di previsione impossibile, fattibile solo con l’uso di un buon mazzo di Tarocchi o con l’ausilio di qualche veggente. Il futuro è così incerto che ogni attività di pianificazione diventa frustrante, a volte persino controproducente, agli occhi di chi si vede cambiare quotidianamente le carte in tavola da clienti, fornitori, banche e governi.
Ecco perché la domanda che mi viene posta sempre più frequentemente è: dove si andrà a finire? E che senso ha, di questi tempi, continuare ad investire sulla propria azienda?
Usando una metafora potremmo dire che il più delle volte chi dirige un’azienda o un reparto si comporta come un autista che debba fare lunghi viaggi ma che sia convinto di essere il solo a saper guidare o a conoscere la strada.
In effetti il più delle volte è proprio così. Chi più di lui conosce le cose o possiede quella abilità nell’ottenere risultati in tempi rapidi?
Eppure, ci sarà un momento cruciale in cui dovrà necessariamente lasciare il posto di guida del suo veicolo a qualcun altro. Potrebbe capitare che questa persona non sappia neppure guidare, ovvero che gli manchino persino le basi relative a quel lavoro (pensiamo al primo impiego di un ragazzo appena uscito dalla scuola). In questo caso il problema principale sarà fargli un po’ di scuola guida, senza arrabbiarsi se ogni tanto l’auto si spegne o se non va veloce quanto noi.
Meritocrazia. Questa è una delle sfide più grandi all’interno delle PMI. Anzi: è “la” sfida!
Perché quando sono presenti sistemi incentivanti significa che tanti altri fattori positivi sono già stati attivati. Perché ci sia meritocrazia, infatti, deve essere stato chiarito a tutti il proprio ruolo e i risultati che ci si apetta da ciascuno di loro. Ci dev’essere poi un sistema di verifica e controllo, legato a statistiche, per poter valutare oggettiviamente chi davvero è efficiente da chi non lo è (per questi concetti leggi gli articoli nella sezione Organizzare).
Questo però è solo un aspetto, legato più che altro ai risultati tangibili.
L’altro, forse più importante ma spesso sottovalutato, è invece legato agli atteggiamenti delle persone.
Per atteggiamenti intendiamo svariati fattori:
Lo “standard qualitativo” non è, come spesso si è portati a pensare, la qualità “media” di ciò che viene fatto o fornito ad un cliente. Lo standard qualitativo è in realtà spesso legato alla peggiore performance, poiché è quella di cui si ricorda il cliente.
Un perfetto esempio è dato dai fast food più famosi, in cui viene servito sempre lo stesso tipo di panino, a prescindere dal luogo in cui lo mangiamo e dall’operatore che ci lavora. Se ci capitasse di mangiare un panino avariato, anche solo una volta ogni cento panini, la percezione di quella catena di fast food sarebbe legata a quell’unico panino che ci ha intossicati, e non più ai 99 che abbiamo trovato mediamente buoni.
Per un’azienda o un professionista è molto meglio fornire prestazioni sempre uguali, anche se non eccezionali, piuttosto che prestazioni molto diverse tra loro, poiché inevitabilmente la reputazione si legherà a quella peggiore.
Il grande esperto di vendite Jeffrey Gitomer sostiene che “se fai domande intelligenti, capiranno che sei intelligente, se fai domande stupide…“.
Osservazione perfetta nella sua semplicità, al punto da apparire stupida!
Ma per comprendere al meglio la differenza tra i due tipi di domande, cominciamo a soffermarci su alcune della categoria “stupide“:
1. “Mi può parlare un pò della sua azienda?” oppure “Come sta andando il suo settore?“. E’ una totale perdita di tempo per il cliente. Il tuo compito è scoprire questo tipo di informazioni prima che lui ti riceva, perchè ti ha dato appuntamento per ottenre da te proposte, idee, soluzioni e non per raccontarti un pò di sè o della sua azienda. Ottimo inizio!
Questo è uno dei momenti più difficili per un’azienda, soprattutto quando parliamo di PMI: il passaggio generazionale (da padre a figlio o in generale dalle mani di chi ha creato l’impresa a chi la dovrà portare avanti) di solito mette in luce tutti i limiti e le debolezze dell’azienda stessa.
Generalizzando potremmo dire che i casi possono essere due:
1- Titolare abile, ma fortemente accentratore, che negli anni ha creato sotto di sé una sorta di vuoto, sia in termini di responsabilità che in termini di conoscenza. La seconda generazione tende ad essere in questo caso piuttosto insicura e vacillante, confermando al titolare che l’unica possibilità per tenere in vita l’azienda è rimanerci dentro finché le forze e la salute lo assisteranno.
2- Titolare in difficoltà ma che non vuole lasciare le redini dell’azienda alla nuova generazione, sebbene ne abbiano le competenze e capacità. In questo caso si crea solo una lotta tra due forze che si equivalgono e che porta comunque a gravi danni sia economici che produttivi (provate a legare due cavalli con una corda e a farli andare in direzioni opposte e vedrete l’immobilismo completo).
Tecnicamente un’azienda fallisce poiché le uscite superano le entrate e questo porta ad un collasso finanziario più o meno repentino a seconda delle riserve personali dell’imprenditore.
Questa però è soltanto la conseguenza ultima di una serie di inefficienze mai gestite e protratte nel tempo, attribuibili principalmente all’imprenditore.
Di solito le lacune maggiormente riscontrate in chi dirige una PMI sono tre: